Arrivando a Torino ad autunno inoltrato, mi sono subito sentita catapultata nel buio e nel gelo, in un modo che ha poco a che fare con la magia del natale, il presepe, la grotta e le stelle comete. È stato più qualcosa tipo: sei stata rapita e ora ti parcheggiamo in quest’antro sottoterra un po’ umido.
Ma porta pazienza, ti ci abitui subito.
Ed lì che ho capito che “subito” è una dimensione temporale decisamente relativa. Io che ho il metabolismo emotivo di una tartaruga -e non di quelle ninja, altrimenti si andava subito di rotazioni a spirale nell’aria e via che ho conquistato la città nel giro di due pizze- ho impiegato gli anni per modificare geneticamente la mia resistenza all’oscurità e ai reumatismi.
-questa è la favola secondo cui Simonetta si è davvero abituata a questi effetti cromo-climatici-
-la realtà, quella vera vera, meglio lasciarla perdere-
Ma, sì c’è un MA gigantesco:
nel mezzo di questa selva oscura, ho ritrovato un po’ di luce
(e di quella più bizzarra).
Non sto parlando dei semplici lampioni per le strade pubbliche: quelle ci sono disseminate un po’ ovunque, sopra, dentro, fuori, sotto, i portici di tutta la città. Parlo di qualcosa che non avevo mai visto a casa mia e che, anche oggi, non posso dire di aver visto in altre città d’Italia.
Torino ha le luci di Natale più strane.
Verso novembre-dicembre, come un po’ dappertutto, si comincia ad addobbare gli edifici con robe natalizie. Ci sta, me lo aspettavo. È una mania che persino in Sardegna è arrivata, insieme alla catena Old-Wild-West. Quello che però faceva parte del mio immaginario pre-vigilia comprendeva le seguenti chincaglierie:
1-Babbo natali agganciati alle ringhiere dei palazzi.
2-Lucine rubate alle discoteche e disposte disordinatamente sui terrazzi.
3-Alberelli di plastica con finta neve decorativa.
4-Serpentoni fluo, prestati gentilmente dai travestiti locali.
5-Qualche iper dettagliato presepe in mostra nelle vetrine dei negozi.
A Torino, luogo in cui si ama distinguersi per qualsiasi cosa, persino le luci di natale sono arrivate in modalità alternativa. O meglio, in maniera artistica.
Praticamente, una sera che stavo rientrando a casa, cercando di non pensare al freddo, ho alzato la testa e ho visto degli operai che montavano su due sagome rosse: un uomo e una donna visti di profilo, che finivano per fondersi i cervelli.
Mi son detta: “bon” (sì, avevo già cominciato a pensare come loro), ci sarà una qualche manifestazione strana.
La mattina dopo, uscendo per fare la spesa -o semplicemente perché dovevo fare qualcosa ed ero entrata nella terribile spirale del “sei in una città nuova, devi dimostrare che non hai fatto una cazzata, alza il culo”- mi son ritrovata circondata.
In una via c’erano una sfilza di decorazioni stellari: pianeti, stelline, comete, meteoriti, asteroidi, quello che volete, uno dietro l’altro.
In un’altra c’era una favola che si evolveva lungo tutto l’isolato, frase dopo frase, finché non arrivavi alla fine della strada e non ci avevi capito più niente.
Altrove erano comparsi tanti piccoli pacchettini quadrati, a sbarrare il cielo coi loro colori verdi e rossi.
Torino era piena. Non c’era un posto nel centro che non fosse stato trasformato in un museo di arte contemporanea.
Quella mattina era diventata poi notte e tutte quelle installazioni si erano magicamente accese. Forse è stata la prima volta che non ho camminato per la città, ma ho passeggiato. E cioè non ho solamente percorso un tragitto da A a B col pensiero fisso che fossi un pezzettino di ghiaccio vagante, abbandonato dal calore umano.
Ma ho ammirato qualcosa durante il mio passaggio.
Io non l’ho ancora capito se le amo o le odio ste luci d’artista, come non ho ancora risolto il mio rapporto conflittuale con le attuali forme d’arte.
Però so che una cosa così l’ho vista solo fatta dai Torinesi.
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